L’ho vista. Con i miei occhi: era lì, davanti a me, che mi precedeva mentre scendevo le scale. Finché la rampa non fosse terminata, ero in trappola, non potevo sottrarmi, il mio sguardo raccapricciato, malgrado tutto, restava incollato al dettaglio, che ingigantiva e ingigantiva: un mozzicone di caviglia si divideva tra una décolleté tacco 5, né ballerina né stiletto (e di un beige altrettanto indeciso, mellifluo), e il limitare estremo di un paio di jeans accorciati da un risvolto casereccio. Ai piani superiori, si ritrovava una casacca a fiorami ubriacati, i cui lembi, privi dell’appiglio pietoso di una cintura, subivano in doloroso silenzio il destino timidamente svolazzante dei dimenticati.
L’informe aveva preso forma, la mancanza di una benché minima consolazione cromatica e – chissà perché il particolare non mi ha sorpresa – un afrore di afa subita sotto indumenti non abbastanza freschi –, come ruffiani dell’aberrazione, circondavano quella scarpa (sciapa, sformata anche), quella caviglia (grottescamente puerile) e quel risvolto (tristemente agreste).
Pochi istanti e gli scalini erano terminati, svoltavo l’angolo nella direzione opposta a quella “cosa”, mi riprendevo la mobile libertà del mio campo visivo. Ma una tale visione, come i raggi di un sole invadente che manda bagliori nel buio delle palpebre chiuse, resisteva ancora alla fuga attraverso la quale cercavo, in un corridoio qualunque, di stabilire una distanza sostenibile tra me e l’orrore. E l’immagine, già fantasma di se stessa, si radicava tuttavia in quella parte della mente che sembra preposta a custodire – per quanto? – ciò che ci ha ferito.
Non volli e fui grata di non potere associare un volto a cotanta bruttezza, come non si desidera, dell’atto efferato e inumano dell’assassino, conoscere la mente che lo ha concepito. Ma questo non mi risparmiò il rigurgito serotino di questa costola ponderosa di nefandezza estetica.
Chissà: se avessi preso un’altra strada, quella mattina, o se mi fossi affrettata lungo il percorso usuale? Avrei potuto precedere di pochi, ma cruciali secondi la portatrice (sana?) di una combinazione malsana. Però l’incidente, dopo che è avvenuto, inutilmente lo si ripensa alla luce di alternative che evidentemente il fato non ha ritenuto di offrirci.
Si passa oltre, certamente. Ovvero: tutto passa. Tranne forse il malinconico ricordo di quella casacca, costretta – lei sì – ad affacciarsi tutto il giorno sulla tela ordinaria arrotolata laggiù, malamente. Su quel risvolto senza speranza, a una manciata – comunque eccessiva – di centimetri sopra la scarpa sbagliata.
(Di P.)
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